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Antifascismi e resistenze

      STORIA   Franco De Felice (a cura di),  Antifascismi e resistenze , La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pagg.538, lire ...

 

STORIA

Franco De Felice (a cura di), Antifascismi e resistenze, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pagg.538, lire 70.000.

Il titolo del volume riprende quello del convegno organizzato nell'ottobre del 1995 a Roma dall'istituto Gramsci e dal Comitato nazionale per la celebrazione del cinquantennale della Resistenza e della guerra di Liberazione, con la partecipazione di studiosi qualificati e di diversa formazione culturale. Fra di essi merita di essere segnalata Elena Aga-Rossi, i cui studi sulla Seconda guerra mondiale, come quel lo inserito in questo volume, La divisione dell'Europa nel piani alleati (1941-1945), sono i più innovativi e anticonvenzionali fra quelli reperibili in materia.

Il nome della Aga-Rossi, già assidua collaboratrice di " Storia contemporanea ", insieme con quelli di altri intervenuti, sembrava garantire una pluralità di opinioni, del resto implicita nel titolo dell'incontro, che indicava l'esistenza di più espressioni del movimento antifascista. Certo, sarebbe stato esagerato sperare che le intenzioni degli organizzatori del convegno, beneficiari politici per mezzo secolo di una memoria unitaria e graniticamente ufficiale della Resistenza, potessero saldarsi con la prospettiva "revisionista" di quel filone critico di studi che, attraverso il riesame

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delle vicende belliche e in particolare della guerra civile, vuole offrire una lettura dell'origine e dello svolgimento della nostra storia repubblicana che sfata molte certezze accreditate come tali proprio dalla storiografia contigua al Pci. Nonostante ciò, era impensabile che il convegno romano non dovesse far altro che servire da cassa di risonanza allo schema interpretativo esposto nell'introduzione di Franco De Felice. Eppure, così é accaduto, e la maggior parte degli interventi sta a testimoniarlo.

Colpisce, ad esempio, che a uno dei relatori, Leonardo Paggi, siano state affidate ben due relazioni, una delle quali, conclusiva dei lavori e quindi riepilogativa della loro chiave interpretativa, é volta a stigmatizzare Le ragioni politiche del revisioniamo storiografico, contestandogli una presunta grettezza di obiettivi, tesi unicamente a " riscrivere il passato per rendere più digeribile un presente inquietante ", quando invece il biennio 1943-45 dovrebbe essere inserito al l'interno di " tendenze evolutive di più lunga durata ", pensando le quali " una storiografia critica deve oggi andare oltre la pura e semplice riproposizione di una tradizione politica "da sinistra" ". Quand'anche il senso di questo appello fosse condiviso o almeno apprezzato, non si può fare a meno di notare come esso giunga in calce ad un convegno che fin dall'inizio ha operato una netta scelta fra le due linee interpretative che si confrontano sul tema dell'antifascismo e della Resistenza e sulla rispettiva legittimità a fungere da elementi fondanti e ancora strutturalmente costitutivi della società nata dagli esiti della guerra (civile e internazionale). La tesi contestata dagli organizzatori del convegno é infatti ben individuata: é quella della " morte della patria", accusata di implicare una visione riduttiva dell'esperienza fascista e una conseguente svalutazione dell'antifascismo a causa delle sue ambiguità interne, frutto del coinvolgimento di forze eterogenee che avrebbero bloccato il successivo sviluppo del paese. Contro questa impostazione, Franco De Felice ribadisce la " centralità del nodo antifascismo-Resistenza " e dichiara che semmai la loro attuale validità " solleva il tema complesso della memoria storica e della sua costruzione, cioé della trasferibilità di quella esperienza.

Il che suona come un invito ad impedire di entrare nel merito della discussione sollevata dai contraddittori, limitandosi a uno studio delle opportunità di attualizzazione e di adattamento alle odierne esigenze culturali e politiche delle tematiche classiche da sempre care agli Istituti Gramsci e soprattutto agli Istituti Storici della Resistenza.

Procedendo in questa direzione, gli autori che non trovano spazio sono Ernesto Galli della Loggia, Renzo De Felice ed Ernst Nolte. E veramente eccessivo appare il trattamento riservato a quest'ultimo da Nicola Tranfaglia, che mette giustamente sotto accusa il pressapochismo dei mass media quando si vogliono occupare di questioni storiche ricorrendo a toni e argomentazioni scientificamente scorretti e cita a mò di esempio il clamore con ìl quale sarebbero stati accolti dalla stampa due volumi non meritevoli, a suo avviso, di tanta attenzione: Il cono d'ombra di Franco Bandini e Gli anni della violenza dello studioso tedesco. Questa equiparazione é solo apparente, perchè se il primo libro viene considerato inattendibile, del secondo Tranfaglia si limita a stigmatizzare la scarsa originalità delle tesi. Accostando i due libri si porta però un'ulteriore stoccata contro Nolte e la sua idea di guerra civile europea, messa sovente in stato d'accusa nel corso del convegno per la sua inadeguatezza a comprendere la complessità del conflitto che si andava svolgendo, non solo sul fronte europeo. Curiosamente, la critica a Nolte viene condotta recuperando il concetto di guerra civile elaborato da Carl Schmitt, perchè il confronto che quest'ultimo prevede privilegia il momento dell'unità contro il nemico a quello della condivisone di un programma: modello che si attaglia perfettamente al caso dell'antifascismo.

Caso veramente insolito, molti degli interventi adottano una prospettiva analitica molto generalizzante, solitamente invisa agli storici per la sua presunta vaghezza ma In questa circostanza estremamente utile, perchè non solo consente di riaggregare nella categoria dell'antifascismo uno sfilacciato fronte di lotta, ma ha anche un campo di applicazione ampliabile su scala mondiale. Nel mondo degli anni Trenta, si sostiene, si registrava una diffusa perturbazione degli equilibri politici ed economico-sociali, causata dal l'inadeguatezza dello Stato-nazione a governare le società uscite dalla prima guerra mondiale. A questo disagio i fascismo avrebbero risposto con la prospettiva dell'esclusione, mentre nei geni dell'antifascismo stava Il principio opposto e ben altrimenti valido dell'interdipendenza: aggregazione fra partiti e gruppi sociali diversi, intese internazionali, trasversalità rispetto all'appartenenza nazionale.

In questo contesto, la relazione di Lutz Klinkhammer La nazione divisa In due. Mobilitazione politica e scelta nazionale nell'Italia.occupata dal tedeschi assume tratti forse eccentrici rispetto alle indicazioni di Franco De Felice, ma in compenso assume come bersaglio polemico il più famoso Nenzo, reo di aver parlato di crollo della nazione quando invece a arida re in rovina sarebbe stata solo una nazione, in particolare quella del progetto fascista, tutt'al più quella monarchica. Inoltre, per lo storico tedesco, " che la repubblica democratica di oggi abbia bisogno di un progetto nazionale é una finzione [...] una fissazione -, perchè non bisogna pensare la liberazione " in termini di valori nazionali ", ma " analizzare l'espressione nazionale dell'antifascismo -. La tesi é chiara; però, quando ci si domanda se l'8 settembre, invece che il momento del crollo della nazione, non sia stato piuttosto I'" inizio di un processo democratico ", si può ipotizzare che le due prospettive non siano

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inconciliabili, e in tal caso sarebbero corretti i rilievi di Galli della Loggia o di Renzo De Felice in merito al valore fondante dell'idea di nazione, come sarebbero giuste anche le contestazioni di quanti, pur non riconoscendole attualmente tale funzione e capacità, so no portati a considerare illusoria e vana la speranza di poter rispondere al bisogno di identità soddisfatto in altri tempi dalla nazione con espedienti analoghi al - patriottismo della costituzione -- La formula escogitata da Habermas nasceva infatti proprio dall'intento di snazionalizzare la Germania, eliminando interi brani della sua storia nella prospettiva illuministica di poterla ricostruire ex novo facendo affidamento sulla norma giuridica. Ma la freddezza e impersonalità del diritto incontra difficoltà nel coniugarsi coi senso di comunità, che si nutre di sollecitazioni psicologiche oltre che della sensazione di continuità nel tempo.

Franco De Felice, anch'egli recentemente scomparso, avrebbe potuto opporre a queste contestazioni le sue tesi sulla funzione ricompositiva assolta in Italia dall'antifascismo: - ricomposizione fra nazione e democrazia, che media e comprende quella tra classe e nazione " (analogamente, Leonardo Paggi scrive che l'antifascismo ha espresso una base più ampia su cui poggiare la legittimità dello Stato, accogliendo classi e tradizioni politiche diverse). Senonchè, il carattere di lotta di classe assunto dalla guerra civile, che é andato oltre i suoi confini temporali, fa emerge re una ben strana volontà di ricostruire il tessuto con nettivo di una società, che prevede l'eliminazione forzata di una parte di essa. A detta di Giorgio Caredda (L'antifascismo del Front populaire), un'obiezione del genere é solo una " sindrome da cavallo di Troia " nei confronti dei comunisti, a cui si dovrebbe dare credito per il loro antifascismo, invece di svalutare quest'ultimo perchè accoglieva nel proprio seno una componente poco propensa a glorificare quelle libertà "borghesi" per la cui affermazione i movimenti di Resistenza affermavano di battersi.

Ad avviso di Franco De Felice, il carattere insieme classista e "nazionale" dell'antifascismo comunista avrebbe offerto l'opportunità di approfondire una " divaricazione crescente fra un'esperienza e pratica democratiche e strutture culturali adeguate a sostenerle -. In prospettiva storica " l'avvio di tale contraddizione é stato fecondo, sebbene non sia stato realizzato un suo superamento prima della scomparsa dell'URSS". Ciò significa che é impossibile constatare una maturazione democratica del comunismo internazionale; ma siccome questa crudezza espressiva appartiene agli anticomunisti, si preferisce avanzare la teorica possibilità che essa. avrebbe potuto verificarsi grazie a un'ipotetica evoluzione interna, alla quale lo avrebbe reso disponibile la diversità del la sua essenza intima rispetto alle forme che storicamente andava assumendo. Un'analoga apertura di credito, però, non si é mai registrata nei riguardi di ideologie di segno contrario, a proposito delle quali si sono sprecati gli aggettivi dispregiativi per sottolinearne l'antidemocraticità ed espungerle dal dibattito delle Idee insieme con coloro che se ne rendevano interpreti. Solo del comunismo é culturalmente lecito distinguere una forma " reale " da una " ideale ".

La responsabilità storica di questa difformità valutati va non può comunque essere sbrigativamente ricondotta a una strategia ispirata da Mosca e messa in atto dai suoi terminali italiani, come vorrebbe certa pubblicistica  occidentalista, ma deve essere ascritta anche alle forze politiche non-comuniste o addirittura anticomuniste, che hanno legittimato questo paradosso perchè esso era inserito nello statuto della repubblica postfascista.

Che quella italiana sia stata un'esperienza del tutto particolare lo confermano indirettamente alcune relazioni secondo le quali tale convergenza non é esistita altrove, o comunque l'esistenza di un fronte antifascista non ha favorito il partito comunista. Luciano Marrocu ("L'impatto di Hitier": la Gran Bretagna tra appeasement e peolie's war) ci mostra come in Inghilterra sia stata l'idea della British democracy a condizionare le componenti più radicali della sinistra, e in Spagna, secondo Antonio Elorza (Dalla guerra antifascista al mito della Resistenza in Spagna), addirittura dalla guerra civile non nacque alcuno stimolo all'unità dell'antifranchismo, se non fra alcuni gruppi della sinistra in funzione di opposizione ai comunisti di ispirazione sovietica, detestati per i comportamenti ostili tenuti durante quel conflitto a danno delle forze loro alleate.

Le responsabilità che anche in questa circostanza sono addebitabili all'Unione Sovietica non impediscono che l'analisi della storia di questo paese venga condotta usando toni molto sfumati, o portando a sua discolpa giustificazioni che non si adottano per altre esperienze politiche. Andrea Panaccione (Crisi della democrazia, antifascismo, Unione Sovietica) scrive che negli anni Trenta " il punto di vista non so lo del movimento socialista ma anche di vaste correnti dell'opinione pubblica occidentale non é più, come nel decennio precedente, quello della democrazia ma quello della crisi della democrazia ", e con ciò inserisce la classica cesura all'interno delle vicende di quel paese che consente di addebitarne i tratti negativi all'epoca staliniana, ma soprattutto ammette che le valutazioni che si danno dei sistemi politici sono influenzabili da un immaginario collettivo che fa percepire in maniera diversa esperienze analoghe. La correttezza in linea di principio di questo ragionamento si scontra però con la sua applicazione parziale, in quanto esso non é mai stato utilizzato per i regimi autoritari e totalitari diversi da quello sovietico, che, anzi, finiscono per essere considerati causa e non effetto della crisi della democrazia e, attraverso la demonizzazione della loro immagine, contribuiscono ad accrescere il tasso di omogeneità delle forze che li avversarono, non solo sul piano

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storico ma anche su quello delle consonanze genetiche tra le loro rispettive culture politiche.

Una lettura di questo genere riecheggia le tesi formulate da Eric Hobsbawm ne Il secolo breve, ma é consonante anche a quella di alcuni teorici della democrazia, il più illustre dei quali in Italia é senza dubbio Norberto Bobbio. Sul piano dei riferimenti storici l'esempio più significativo può essere quello di Carlo Rosselli, come dimostra l'analisi di Nicola Tranfaglia (Una scelta di campo necessaria. Carlo Rosselli e GL di fronte a Hitler e all'espansione dei fascismi), che gli ascrive a merito quella che altri considerano una colpa della cultura azionista, cioé l'aver privilegiato "l'alleanza con i comunisti riconosciuti come maggiore forza rivoluzionaria antifascista". Senza bisogno di ispirarsi ad alcun nume tutelare, Panaccione sostiene invece l'importanza del rapporto del l'antifascismo con l'Unione Sovietica sia in linea di principio che in via di fatto, perchè " nel caso di un antifascismo meno compromesso e ideologicamente più limpido " il suo significato storico sarebbe risultato " ridotto ed impoverito ".

Questo florilegio di citazioni non soltanto conferma il deprecabile ma consueto vizio degli intellettuali che tendono a ricomporre forzosamente le discrasie che spesso si registrano fra i loro ideali di riferimento e le testimonianze storiche che questi ultimi hanno lasciato di sè, ma offre anche la riprova che questo comportamento é parte integrante di una strategia riaffiorata in tempi recenti e con un'innegabile caratura politica anche quando dovrebbe rimanere circoscritta all'ambito culturale, e il cui fine é la rivalutazione del "compromesso antifascista del dopoguerra" (Franco De Felice), che nelle more dell'attuale crisi mondiale avrebbe ritrovato le condizioni della situazione che lo aveva partorito. Leonardo Paggi (L'antifascismo e la ricostruzione del consenso democratico In Italia dopo il 1945) si assume l'onere di rendere ancora più esplicito questo progetto quando sostiene la necessità di reagire all'attacco attualmente in corso contro l'antifascismo, i cui bersagli specifici sarebbero il riformismo storicamente realizzatosi con il contributo determinante del movimento operaio e un concetto di cittadinanza che ammette la condivisione degli stessi bisogni e degli stessi consumi oltre all'eguaglianza formale davanti alla legge. Responsabile di questo attacco sarebbe una destra che, benchè non sia neo ma post-fascista, ha comunque come scopo la messa in discussione dei risultati storici dell'antifascismo attraverso la normalizzazione della storia del secolo.

Questa destra non mirerebbe più alla diretta legittimazione delle esperienze fasciste, ma coltiverebbe l'ambizione più ampia e pericolosa di ristabilire una continuità nella storia delle nazioni che dia spazio a una tradizione revisionista "rispettabile i cui intenti non sarebbero nè ideologici nè storiografici, ma finalizzati a far evaporare le molteplici connotazioni postbelliche della democrazia. In sostanza, essa sarebbe una reazione contro i benefici di cui avrebbero goduto anche i gruppi sociali meno garantiti, che oggi si vorrebbe risospingere verso la marginalità.

Se é davvero in atto un'operazione funzionale al ridimensionamento dello stato sociale e al ritorno a una versione liberale della democrazia che, privilegiando l'autonomia del mercato, consenta la rincorsa ai benefici individuali come possibile fonte di quelli collettivi, invece che puntare ai secondi per consentire ai primi di prosperare in maniera compatibile con quel li, non é chiaro quale aiuto per contrastarla possa venire da una continuità della tradizione politica antifascista, che può essere perseguita solo se "completamente riformata sulla base del mondo attuale" (Paggi). Che senso ha invocare l'autorevolezza di una testimonianza storica che si ritiene indispensabile aggiornare completamente? E se quell' "anti" é da conservare perchè caratterizza schmittianamente Il partito della guerra civile, il termine che lo accompagna non dovrebbe essere modificato, rendendo il riferimento polemico più in sintonia con il mondo di oggi? Oppure il fascismo é un'astorica categoria del lo spirito (maligno, ovviamente) che può incarnarsi in forme assolutamente diverse e quindi ha contaminato anche quella destra che oggi tenta di riacquistare visibilità? Se ciò si intende sostenere, non si può non obiettare che questa é una destra ben più ampia di quella a cui si allude, perchè i richiami all'economia di mercato e all'ispirazione liberale e liberista vengono da un arco di forze che rappresentano la quasi totalità dello schieramento politico italiano.

Si é a lungo ascritta al fascismo o al neofascismo la impossibilità dell'Italia di conoscere una destra che si potesse definire moderna e occidentale, ma quando sono apparse le condizioni perchè essa potesse con cretizzarsi, subito se ne é messa in dubbio la presentabilità piuttosto che le tesi, perchè queste ultime in realtà sono la versione più arruffata e radicale di quei principio liberali ai quali tutti dicono oggi di ispirarsi. Di questa ulteriore forma di contento ad excludendum il convegno su "Antifascismi e Resistenze" ci sembra un lineare esempio, almeno nelle intenzioni degli organizzatori e del "nocciolo duro" dei relatori, su cui abbiamo voluto fermare la nostra attenzione. Altri studiosi intervenuti nell'incontro avrebbero meritato di essere ricordati solo per le loro tesi. Se non lo abbiamo fatto, é stato proprio per la loro eccentricità rispetto ad un progetto che ci é parso opportuno, in questa sede, stigmatizzare.

Mario Sanesi





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Data pubblicazione: 18 luglio 2007

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