Fiumi di sangue e di parole. [diorama.it]

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Mensile di attualità culturali e metapolitiche

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Fiumi di sangue e di parole.

      

 

Troppe volte abbiamo ricordato, su queste colonne, quanto peso abbia da sempre l'ipocrisia nella politica per stupirci dell'uso smodato che da più parti se ne è fatto in occasione dei tragici eventi parigini delle scorse settimane. Stracciarsi le vesti, buttarla sulla commozione, solleticare l'emotività del pubblico è stato, fin dai tempi antichi, un piatto forte del repertorio retorico della demagogia, un genere che non è mai passato di moda negli ambienti avvezzi alla gestione del potere, anche se, con l'andar del tempo, abiti e atteggiamenti hanno dovuto adeguarsi alle mode correnti. Intatto è rimasto comunque l'obiettivo che ci si prefigge ricorrendo a questi espedienti: sgombrare preventivamente il terreno dalla possibilità di un'analisi razionale dei fatti, far passare per cinico ed insensibile chiunque voglia imboccare questa strada per vederci più chiaro e oltrepassare il livello delle reazioni epidermiche, distogliere l'attenzione dalle responsabilità della parte che si vuol difendere e incanalare gli umori popolari verso i nemici designati.

   

Questo copione viene sistematicamente recitato ogniqualvolta ci si accosta ai temi tabù e “politicamente scorretti” dei nostri giorni: basti pensare alla vanificazione di ogni possibile dibattito su problemi e limiti di sopportabilità degli ingenti flussi migratori che si sono abbattuti sull'Europa negli ultimi decenni, attuata con il ricorso ad immagini che non possono non suscitare sgomento: i barconi che affondano, le scarpine o i giocattoli dei bambini annegati che affiorano a pelo d'acqua, i corpi smagriti e dolenti dei disperati soccorsi dalla guardia costiera, avvolti in coperte di fortuna. A suon di lacrime e di appelli a privilegiare i battiti del cuore alla grigia meccanica celebrale, qualsiasi interrogativo che vada al di là dell'aspetto spettacolare ed evenemenziale è messo al bando. A questo comportamento ormai seriale siamo abituati. Tuttavia, nel caso dell'assalto alla sede di “Charlie hebdo” e delle stragi che ne sono seguite, si è andati oltre questo esorcismo ordinario: è entrato in funzione un meccanismo di mistificazione e condizionamento al conformismo di proporzioni mai viste, di fronte al quale non è possibile, a chi non si accontenta del voyeurismo da reality show, non porsi un certo numero di interrogativi.

 

Partiamo da un dato: la rappresentazione degli scopi dell'atto di grande violenza perpetrato dagli assalitori. Costoro sono stati chiari, urlando, nel momento in cui colpivano i redattori del settimanale e subito dopo, che il loro atto era un gesto di vendetta per quella che consideravano una profanazione: la reiterata pubblicazione di disegni offensivi nei confronti di Maometto e della religione islamica. La provocazione blasfema aveva del resto già attirato sulla rivista ritorsioni e minacce, culminate in un incendio dei locali della redazione. Il contesto del crimine è stato dunque chiaro fin dal primo momento. E tuttavia…

 

Tuttavia, gli ammaestratori dell'opinione pubblica hanno immediatamente inserito nello scenario altri registri, per consentirsi di trarre dall'avvenimento ulteriori argomenti per la loro incessante opera di manipolazione delle menti e delle coscienze. Lo hanno fatto operando simultaneamente su due versanti: da un lato suggerendo dubbi sul reale movente dell'attacco; dall'altro, elucubrando sulle cause che possono motivare degli “esseri umani” (il passaggio dallo specifico al generico, dal singolo all'umanità, è il marchio di fabbrica di questa strategia manipolativa) a coltivare e mettere in atto tanta ferocia.

 

Tutti sappiamo, rispetto al primo di questi due filoni, su quale spartito si sono trovati a convergere mezzi d'informazione, politici, intellettuali mediatizzati: il vero bersaglio dell'esecuzione, si è detto, non erano dei disegnatori che da anni si ingegnavano a mettere in ridicolo, con un sistematico ricorso all'oscenità e all'insulto, il credo religioso dei fratelli Kouachi, ma uno dei mostri sacri della modernità: la libertà di espressione. Che, si è ossessivamente ripetuto, non deve conoscere limiti, anche se non soprattutto quando si manifesta sotto forma di satira. Quale presa abbia avuto questa litania su una parte del pubblico lo abbiamo visto attraverso le sue ricadute: in primo luogo la fioritura dei cartelli addobbati con lo slogan “Je suis Charlie” – di cui pare qualcuno rivendichi il copyright, sebbene non si possa trovarlo un pò stantio, non essendo altro che la versione aggiustata al caso specifico del “siamo tutti americani” (e via adattando a seconda del soggetto con cui solidarizzare) esploso all'indomani dell'11 settembre 2001. Ci sono state poi le matite brandite in piazza, gli striscioni, la riproduzione delle caricature di Maometto persino sui giornali più compassati (ma allora, verrebbe da chiedersi, perché i quotidiani che lo hanno fatto adesso avevano strillato e profetizzato scenari catastrofici di fronte alla performance dell'allora ministro Calderoli, che aveva soltanto utilizzato una maglietta al posto di una prima pagina?), la tiratura in tre milioni di copie di un nuovo numero del settimanale – che ha trasformato un crimine in una spettacolare operazione di marketing – e così via, con il sostegno cruciale di quei veicoli di permanente fomento dell'isteria collettiva che sono la rete telematica e, al suo interno, i “social media”.

 

A dimostrare l'ipocrisia di questo modo di presentare i fatti, ci vuole poco, anche se (e qui è il colossale problema che caratterizza la dittatura del pensiero liberal-progressista oggi in atto) alle voci dissenzienti dalla vulgata dominante non è consentito l'accesso ai media che contano.

 

Già dal primo momento, lo spostamento del centro dell'attenzione dalle provocazioni anti-islamiche del settimanale colpito alla minaccia alla libertà di espressione suonava falsa e pretestuosa, in un paese che ha alcune fra le peggiori leggi del mondo in materia di soffocamento del pensiero e le applica condannando e spedendo in galera chiunque, anche attraverso un lavoro con intenti scientifici, osi mettere in dubbio alcuni dei dogmi ideologici contemporanei (l'entità ufficialmente dichiarata dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, l'inesistenza delle razze – che in Francia ha ormai rilievo costituzionale! – e persino l'indiscutibilità del genocidio degli armeni in Turchia). È cosa arcinota che la libertà di esprimere opinioni giudicate politicamente inopportune è, nelle democrazie liberali, soggetta a ferrei limiti: in primo luogo di fatto, ma anche di diritto. Grottesco è stato poi lo sforzo operato per allontanare dal giornale vittima dell'assalto la patente di irresponsabilità che alcuni osavano accollargli (memorabile la scenata fatta dal corrispondente italiano di “Le Monde” al malcapitato giornalista di RaiNews che aveva sollevato un dubbio a tal proposito). Mentre scorrevano sugli schermi del televisore o del computer una copertina di “Charlie hebdo” in cui un islamico barbuto veniva trafitto da proiettili che laceravano il libro sacro che teneva in mano e la didascalia diceva “Il Corano è una merda: non protegge nemmeno dalle pallottole”, era inevitabile chiedersi cosa sarebbe successo se un foglio concorrente avesse disegnato Cabu o Wolinski nella stessa situazione con in mano una copia della loro pubblicazione e con un'identica didascalia, con CH al posto del Corano. E difatti più di un frequentatore di forum e blog ha posto espressamente la domanda, mentre qualcun altro l'ha riferita ad altre ipotetiche vignette, che magari suggerissero, in stile wolinskiano, di adottare il metodo dei fratelli Kouachi per favorire il turnover nelle redazioni giornalistiche…

 

Questi sarebbero già elementi sufficienti a derubricare a poco più che propaganda il collegamento fra delitto e libertà di satira. Eppure si è andati ben oltre, nel momento in cui è stato spiccato un mandato di arresto contro Dieudonné M'Bala M'Bala, il notissimo comico già da anni nel mirino dell'establishment politico-intellettuale per la testardaggine che lo porta a prendersela, nei sempre affollati spettacoli che tiene nel suo Théâtre de la Main d'Or e, finché non gliene hanno vietati, in stadi e palazzetti in giro per la Francia, con il da lui presunto strapotere di una “lobby sionista”, accusata di lucrare su una “industria della Shoah” (lo stesso tema, qualcuno dei lettori lo ricorderà, che valse all'autore ebreo Norman Finkelstein, per il suo libro L'industria dell'Olocausto, pubblicato in Italia da Rizzoli, una dura campagna di stampa e un sostanziale ostracismo massmediale). Dieudonné, dopo aver partecipato all'oceanica marcia parigina in risposta alle azioni jihadiste ed averla lodata in termini entusiasti, ha avuto il torto (sul piano dell'opportunità, è difficile negare che tale sia stato) di dichiarare, sulla sua pagina Facebook, “Je suis Charlie Coulibaly”. L'intento del gioco di parole appare evidente, ancorché sulfureo agli occhi dei benpensanti: rappresentare tanto gli assassinati quanto il carnefice come, ciascuno a suo modo, vittime di una situazione in cui si è creato, o per essere più rispettosi della verità, è stato creato da più parti un clima di guerra aperta tra credenze, stati d'animo, condizioni sociali e culturali. Opinione discutibile, ma più che mai rappresentativa del diritto alla libera espressione delle idee. Ed è valsa all'umorista franco-camerunense l'arresto e un processo attorno al quale, c'è da giurarsi, si scatenerà l'odio intimidatorio dei suoi numerosi e potenti nemici, ovviamente tutti immedesimati, quando fa loro comodo, nell'iconoclastia di “Charlie”. (Va detto che, nell'occasione, il coup de théâtre di Dieudonné ha offerto un paravento a un altro provocatore patentato ed esperto in pericolosi eccessi verbali, Jean-Marie Le Pen, che pure ha dichiarato “Se proprio devo essere Charlie, preferisco essere Charlie Martel”…).

 

Se questo aspetto delle reazioni ai fatti parigini offre già abbondante materia di riflessione sull'ipocrisia delle odierne classi dirigenti, conservatrici o progressiste che siano, non va dimenticato l'altro lato dell'offensiva del “politicamente corretto” a cui abbiamo assistito nella circostanza.

 

Sin dalle prime ore dopo l'attentato, si è assistito a una sconcertante traslazione dell'oggetto dei pubblici atti di accusa. Capito che l'identificazione della matrice jihadista del crimine avrebbe favorito il montare di un clima di opinione favorevole al Front national, che sui frutti velenosi di un eccessivo afflusso di immigrati punta il suo dito accusatore da sempre e nella fase di gestione di Marine Le Pen ha spostato il fulcro di questo discorso sui rischi di un'islamizzazione della Francia, gli opinion makers hanno immediatamente sfornato un'interpretazione sociopsicologica ad hoc. A creare nei Kouachi e nei Coulibaly una condizione di disagio tale da spingerli a procurarsi dei kalashnikov e a scaricarli sui redattori di “Charlie hebdo” non sarebbe stata la reiterata profanazione delle loro credenze religiose, bensì il clima di ostilità verso l'islam fomentato dagli avversari dell'immigrazione e del multiculturalismo. Con un malcelato dispiacere per quello che evidentemente considera un errore di scelta del bersaglio più ancora che un delitto, il quotidiano della borghesia progressista versata nel culto dei diritti dell'Uomo e nell'approvazione delle avventure belliche che ne sono il corollario, “Libération”, ha scritto nell'editoriale del 7 gennaio: “È un caso? I terroristi non se la sono presa con gli “islamofobi”, con i nemici dei musulmani, con coloro che non smettono mai di gridare al lupo islamista. Hanno preso di mira Charlie. Vale a dire la tolleranza, il rifiuto del fanatismo, la sfida al dogmatismo. Hanno preso di mira quella sinistra aperta, tollerante, laica, sicuramente troppo gentile, «droit-de-l'hommiste», pacifica, indignata dal mondo ma che preferisce prendere in giro piuttosto che infliggere il proprio catechismo. Quella sinistra di cui tanto si fanno beffe Houellebecq, Finkielkraut e tutti gli identitari… I fanatici non difendono la religione, che può essere accogliente, non difendono i musulmani, che nella loro immensa maggioranza sono disgustati da questi abietti omicidi. Attaccano la libertà”.

 

Avete letto bene. In spregio di ogni dato di realtà, i sostenitori del pensiero unico, i demonizzatori seriali di chiunque metta in dubbio il loro credo ideologico, i detentori del potere mediatico che condanna alla non-esistenza, in un'atmosfera sempre più orwelliana, ogni autentica dissidenza e organizza campagne per chiedere, quasi sempre ottenendola, l'espulsione da redazioni, università, case editrici dei colpevoli di lesa maestà nei loro confronti, si proclamano tolleranti e addirittura accusano gli altri di “infliggere catechismi”, attività da loro incessantemente praticata. Qui siamo ben oltre l'ipocrisia: siamo nella spudoratezza.

 

Come Alain de Benoist giustamente ricorda in un'altra pagina di questo fascicolo, “Charlie hebdo” si era illustrato per un'ampia serie di episodi di settarismo. Ha raccolto firme per lo scioglimento del Front national, un partito che – comunque lo si giudichi, ed è noto che a noi molte delle sue opinioni non piacciono, a partire proprio dal monoculturalismo assimilazionista e dal centralismo statalista negatore delle culture popolari radicate nelle regioni – raccoglie un quarto degli elettori francesi. Ha espulso uno dei suoi disegnatori-redattori, Siné, giudicando inaccettabili e “antisemite” le sue vignette ed opinioni ostili alle politiche di Israele. Ha chiesto a gran voce la cacciata da radio, tv, giornali, comitati editoriali, atenei di giornalisti e studiosi non in linea con le convinzioni della sua redazione. Facendone oggi un'intoccabile icona – già: un simulacro in salsa laica di quelle immagini religiosi che settimanalmente derideva e infangava –, si vuol nascondere questa realtà. Ma non tutti dimenticano. Non tutti sono disposti ad essere, anche per un solo istante, Charlie. Quel Charlie.

 

La verità va dunque ristabilita, almeno nei suoi aspetti evidenti. Gli altri più reconditi, che anche a chi, come noi, non coltiva alcuna propensione al complottismo, qualche dubbio lo suscitano – a partire dalla strepitosa dimenticanza della carta d'identità di uno degli attentatori nell'auto usata per compiere la strage, passando per la macchina della polizia che, giunta a contatto dei Kouachi, fa frettolosamente dietrofront invece di aprire il fuoco mentre i due ripongono i mitra sui sedili, per arrivare alla sbrigativa esecuzione dei due fratelli al momento dell'uscita dalla tipografia in cui si erano asserragliati – li lasciamo ai successivi accertamenti, se mai ci saranno. E fra i dati certi c'è che i redattori di “Charlie hebdo” hanno pagato, certo in modo orribile, la irresponsabilità dimostrata facendo strame delle altrui convinzioni religiose. Nessun altro motivo li ha condannati alla furia omicida.

 

Si dirà che anche il cristianesimo e, in misura più ridotta, l'ebraismo erano stati oggetto di insulto e scherno sulle pagine di un settimanale che, personalmente, abbiamo sempre considerato ignobile e quasi per nulla divertente (opinione diffusa, vista la conclamata crisi di lettori in cui versava), eppure ciò non li ha esposti a nulla di più di qualche denuncia e processo. È vero, perché il mondo cristiano è da tempo in una profonda crisi di identità, ha introiettato i dubbi che la modernità gli ha scaricato addosso e si è ormai rassegnato ad una sopravvivenza più di facciata che di sostanza, e le comunità ebraiche hanno interessi e preoccupazioni ben più significativi da tenere sotto controllo. Lo stesso papa Francesco tanto mediaticamente osannato si è lasciato però sfuggire una messa in guardia contro le profanazioni dell'identità religiosa in cui il foglio parigino era specializzato che gli è subito valsa una levata di scudi. E il suo “se offendono mia madre, gli do un pugno” dà la misura di quanto rancore potesse essersi attirato un settimanale libero di scaricare fango sulle altrui credenze in nome delle proprie (perché in “Charlie hebdo”, come il citato brano di “Libération” fa ben capire, un'ideologia c'era, eccome, piena di disprezzo e odio per gli avversari), in un paese dove nessun giornale “revisionista” potrebbe vivere più del primo numero e verrebbe subito assoggettato ai fulmini delle autorità di polizia.

 

Fare dei dolorosi eventi parigini una questione di libertà di opinione cancellando il diritto al rispetto delle altrui credenze è, perciò, inaccettabile. Così come lo è trarne spunto per simmetriche campagne di odio verso l'intero mondo islamico. Se si vuol evitare che una religione, con i suoi usi, i suoi precetti e più in generale le sue ricadute culturali, soppianti le altre già radicate in un territorio, è sull'immigrazione che si deve agire, limitandola o invertendone i flussi. Non promuovendo odiose pratiche di sradicamento e lavaggio dei cervelli su chi oggi su quei territori vive. I fiumi di parole ipocrite di politici e intellettuali non arresteranno i fiumi di sangue che i proclami delle formazioni integraliste musulmani oggi promettono di far scorrere ai danni degli “infedeli”. Rischiano, al contrario, di rafforzarli e renderli più torbidi e tumultuosi. Chi spasima per vedere la caduta di Assad e ieri ha applaudito quella di Saddam, dovrebbe capirlo e riflettere. Almeno adesso.

 

Marco Tarchi

 





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Data pubblicazione: 21 aprile 2015

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