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Gli scenari internazionali del XXI secolo

 Il concetto di scontro tra civiltà, a mio parere, rispecchia solo un versante della questione che noi abbiamo di fronte se vogliamo parlare degli ...

Il concetto di scontro tra civiltà, a mio parere, rispecchia solo un versante della questione che noi abbiamo di fronte se vogliamo parlare degli scenari internazionali del XXI secolo. Sotto questa etichetta si racchiudono infatti due concetti riemersi al momento del crollo delle ideologie che hanno caratterizzato il Novecento e che oggi naturalmente si presentano come uno dei temi principali del nuovo secolo: il concetto di scontro e quello di civiltà. Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo convegno e tutti coloro che hanno deciso di partecipare ad un incontro incentrato attorno ad un tema di grande suggestione ma non frequentemente trattato nel nostro paese, nonostante che la nascita della rivista "Limes", nel corso degli ultimi anni, abbia accelerato, allargandolo a strati diversi di studiosi o di studenti, l'interesse verso le tematiche geopolitiche, che fino a poco tempo fa erano considerate o marginali o venivano addirittura disdegnate per motivazioni di carattere ideologico. Sono quindi lieto di avere l'onore di svolgere la prima delle relazioni in programma. Come potete immaginare, si tratta di una situazione assai difficile da sintetizzare in mezz'ora di tempo come mi è stato richiesto, ma cercherò di tracciare per sommi capi qualche ipotesi su questi eventuali scenari.

Il concetto di scontro tra civiltà, a mio parere, rispecchia solo un versante della questione che noi abbiamo di fronte se vogliamo parlare degli scenari internazionali del XXI secolo. Sotto questa etichetta si racchiudono infatti due concetti riemersi al momento del crollo delle ideologie che hanno caratterizzato il Novecento e che oggi naturalmente si presentano come uno dei temi principali del nuovo secolo: il concetto di scontro e quello di civiltà.

Samuel Huntington, che è il titolare di questa nuova invenzione di qualcosa che in realtà ha una storia molto antica, in un certo senso ha voluto, per adoperare una vecchia espressione di origine marxiana, rimettere sulle proprie gambe una questione che aveva a lungo poggiato sulla testa delle ideologie, prendendo atto della riterritorializzazione della politica internazionale, non più interpretabile in quel quadro universalistico al cui interno l'omologazione avveniva attraverso l'adesione all'una o all'altra delle grandi ideologie (la bandiera rossa, ad esempio, copriva un intero vasto mondo che avrebbe potuto e voluto essere l'intero mondo) e in cui l'importanza delle differenze etniche, o meglio etnonazionali, delle culture e delle civiltà era del tutto sottovalutato. In secondo luogo, l'ipotesi di Huntington ha sottolineato in particolare alcuni processi che sono emersi con la fine del Novecento e che hanno preso corpo nel corso del decennio che ci separa dalla caduta del muro di Berlino: i processi di frammentazione politica, etnica, nazionale, di de-identificazione in senso globale e di identificazione in senso frammentato; vale a dire i processi di frammentazione dei poli di potenza rispetto ai processi di concentrazione dei poli di potenza.

In un certo senso, l'idea di Huntington, che trova espressione, prima dell'uscita del libro, nel noto articolo del 1993, corrisponde bene all'esigenza della cultura americana e occidentale di revisionare i propri modelli politici e i propri criteri di analisi degli scenari internazionali, un'esigenza che stava nascendo dalle rovine delle ideologie del Novecento. Non è un caso che i due autori che più hanno tentato quest'operazione di recupero geopolitico e culturale delle relazioni internazionali negli Stati Uniti d'America siano stati proprio Huntington da un lato e dall'altro Brzezinski, che nello stesso periodo di tempo ha pubblicato diversi volumi, fra cui da ultimo The Great Chessboard. Huntington e Brzezinski, fin dal 1960 avevano messo a confronto in un celebre libro i modelli politici e ideologici delle due superpotenze dell'epoca, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, in termini realistici e geopolitici invece che ideologici e di contrapposizione tra fedi politiche, tra teologie politiche, come invece era in uso in quel periodo, in particolare nel nostro paese. Brzezinski aveva parlato dell'Urss e invece Huntington aveva parlato degli Stati Uniti, ma se andiamo a rivedere quel vecchio testo vi ritroviamo già una singolarità all'interno del pensiero delle scienze sociali americane, in particolare delle scienze politiche e delle relazioni internazionali, perché questi due studiosi occupavano già allora una posizione anomala nel quadro accademico. Huntington è stato per tutta la sua vita accademica e politica considerato un pericoloso falco, così come Breszinski, ma la relazione fra i due, in realtà, ha punteggiato la storia della seconda metà del Novecento e tutto il periodo della Guerra Fredda proprio come un tentativo di ridimensionare il rischio di una contrapposizione frontale di tipo militare o di tipo ideologico.

Dall'impostazione che il titolo dà a questo convegno, a mio parere resta però esclusoo dal concetto di scontro delle civiltà l'altro versante degli odierni scenari internazionali, quello relativo ai processi di concentrazione che contraddicono le spinte alla frammentazione. Essi, a mio avviso, rappresentano l'ideologia che, a detta di molti, dovrebbe essere trasferita nel XXI secolo integralmente e diventare addirittura la cultura collettiva generalizzata: quella della globalizzazione, intesa nel senso più generale del termine, che investe non semplicemente l'economia o le relazioni finanziarie ma anche le relazioni politiche. Esprimono cioè una visione del mondo che diventa una vera e propria weltanschauung, basata da un lato sull'ideologia della globalizzazione e dell'interdipendenza, dall'altro lato sull'ideologia normativa dell'istituzionalismo politico a livello internazionale: istituzionalismo e normazione al livello dei regimi e dei sistemi politici interni.

Questo risultato fa sì che per un verso noi abbiamo l'ipotesi dello scontro della civiltà e per un altro verso ci troviamo di fronte all'ipotesi della globalizzazione. Le due ipotesi sono evidentemente contrapposte; non sono accettabili in blocco, possono interagire fra di loro, ma tendenzialmente hanno come risultato quello di essere inconciliabili. Lo scontro delle civiltà non è dunque solo un'ipotesi di scontro fra civiltà che a livello mondiale si possono contrapporre anche conflittualmente, ma anche un'ipotesi di scontro fra due concezioni del mondo: quella in cui riemerge la complessità culturale, oltre che etnonazionale o religiosa, delle civiltà e quella che si richiama all'eterno tentativo di omologazione che generalmente è il prodotto delle concezioni imperiali e tende ad omogeneizzare le differenze, trascurandole e sforzandosi di neutralizzarle attraverso una ideologia complessiva, vincente e da tutti accettata, con le buone o con le cattive.

Apparentemente, alla conclusione del Novecento, noi ci troviamo di fronte a un XXI secolo che si apre da un lato con la prospettiva minacciosa dello scontro delle civiltà e, dall'altro, con la prospettiva ottimistica del consolidamento di un modello occidentale in forma globalizzata, pronto per essere esportato in tutto il mondo. Nella realtà, per il momento esiste un limite alla possibilità di esplosione dello scontro di civiltà, costituito dall'egemonia suprema e assoluta degli Stati Uniti d'America e del modello occidentale che gli Usa hanno inventato, costruito, reso sofisticato, reso commestibile a tutti gli altri paesi, reso occidentale (il modello americano è infatti ormai diventato il modello occidentale), e che adesso, negli auspici di coloro che lo hanno promesso dovrebbe diventare modello globalizzato a livello mondiale. Anche se i sostenitori del modello globalizzante tendono a sopravalutare gli avversari perché così rinforzano il modello stesso, in realtà essi non sembrano trovare una resistenza davvero efficace.

Chi sono, oggi, gli avversari di questo modello? Il pensiero liberaldemocratico, che ne è l'asse portante, da chi è insidiato dopo la caduta del modello alternativo che era costituito dal comunismo, o prima ancora, dal nazifascismo? I due vecchi sfidanti sono stati schiacciati dalla supremazia anglo-americana, hanno perso lo scontro in cui si erano impegnati e il modello liberaldemocratico e liberista, oggi globalizzante, è vincente: è un modello che possiamo definire in termini di territorialismo ideologico "marittimo", che ha vinto contro il modello continentalista "terrestre" che era tipico sia del nazifascismo sia, soprattutto, del comunismo sovietico. Di fronte a questa straordinaria vittoria, quello che resta sono i rottami dei modelli che lo hanno sfidato o alcune nuove figure di pericolosa potenzialità, che però sono per il momento ancora molto limitate e si pongono come gli avversari del processo di riconcentrazione globalizzante.

Questi nuovi avversari chi sono? I rogue states, come li chiamano gli americani, cioè quegli stati che esercitano una funzione "sgradevole" rispetto all'armonia delle relazioni internazionale potenziale. I rogue states, categoria in cui sono stati volta per volta inclusi l'Iran, l'Irak, la Libia, la Serbia e che potrebbe in futuro contenere molti altri paesi: un giorno forse anche la Cina, l'India, la Russia. Se un giorno diventassero rogue states anche queste tre macroaggregazioni territoriali, è chiaro che il modello oggi vincente si troverebbe di fronte ad avversari seri; ma per il momento si trova a confrontarsi con avversari minori, che sono stati schiacciati o resi impotenti, messi nelle condizioni di non nuocere, sia con attività bellica, militare, sia attraverso l'isolamento o l'embargo. Cuba è stata il primo esempio storico del dopoguerra di uno stato comunista – isolato, però, territorialmente dagli altri stati comunisti – sottoposto ad un embargo permanente che non è ancora concluso, e in un certo senso, strozzato, così come sono stati strozzati in parte l'Iran, l'Iraq, la Libia e la Serbia.

I rogue states sono piccoli diavoletti che possono essere messi a posto in nome della ideologia dei diritti umani, che è oggi il passepartout attraverso il quale si riesce a imporre un modello imperiale, riconosciuto e accettato ai quattro angoli del pianeta. Sotto questo profilo, il sistema di controllo psicologico e culturale occidentale è molto efficace. Chi poteva opporsi seriamente, ad esempio, alla reazione dell'alleanza militare occidentale ai comportamenti aggressivi dell'Iraq nei confronti del Kuwait? Quali possibilità di successo poteva avere l'azione di chi sosteneva i diritti dell'Iraq di Saddam Hussein sul paese confinante? Nessuno. E nella maggior parte dei casi, il successo del modello globalizzante non ha bisogno del ricorso agli strumenti bellici per essere assicurato. La nuova potenza imperiale può controllare il resto del mondo gradualmente, attraverso anche l'evoluzione dell'economia, ad esempio tramite la scelta delle aree sviluppate da sviluppare ulteriormente e l'emarginazione delle aree sottosviluppate che non rendono abbastanza dal punto di vista del modello globalizzante. L'ipotesi che sottosta a questa politica è che il sistema nel suo insieme possa essere tenuto in piedi da una rete di rapporti istituzionali e normativi che trasformi la politica in amministrazione e i rapporti di conflitto politico in procedure. Il vero obiettivo è la trasformazione della politica in procedura. Si potrebbe pensare, per analogia, ai manuali dei nuovi programmi informatici: recentemente è uscito Office 2000, che è uno dei pacchetti complessivi di word processing, di grafica, ecc., che, insieme al cd-rom che fornisce il programma integralmente – e che è enorme, ovviamente – presenta, per chi voglia studiarlo seriamente, un manuale di 900 pagine, in cui sono descritti minuziosamente tutti i comportamenti possibili e immaginabili del programma. È una dimostrazione della grande ossessione della manualistica, tipica della tradizione culturale degli Stati Uniti. Su un piano diverso, la manualistica e le procedure diventano il metodo attraverso il quale si può eliminare la non regolamentabilità del conflitto politico, il rischio che il modello imperiale possa essere messo a repentaglio. Tutta la teoria dei rogue states è basata su questo principio chi non rispetta il manuale deve essere punito, affinché impari a rispettarlo.

In termini politico-strategici, questo significa che gli americani non hanno più bisogno di eliminare i rogue states o di spazzarne via i gruppi dirigenti. È sufficiente spezzar loro le reni. Saddam Hussein ha avuto le reni spezzate dalla guerra del Golfo: può fare quello che vuole, può rimanere al governo ancora per venti anni, ma ormai non ha più nessun potere dal punto di vista di intervento nella zona del Medio Oriente che è di interesse e di pertinenza strategica degli Stati Uniti d'America. Così come Slobodan Milosevic ha avuto le reni spezzate dalla guerra del Kosovo e potrebbe ancora durare anni, ma non conterebbe più niente, così come Gheddafi, già alla fine degli anni Ottanta, aveva avuto le reni spezzate da un paio di giorni di bombardamenti americani ed è stato ulteriormente ridimensionato con la demonizzazione successiva all'abbattimento del jumbo della PanAmerican in Scozia e il processo internazionale a due agenti segreti del governo libico, presunti responsabili dell'attentato. È così che funziona il meccanismo. È un meccanismo correzionale, non è un meccanismo politico di confronto e di scontro delle civiltà, almeno per il momento. Lo scontro della civiltà è rimandato a data a destinarsi. Per adesso, ci troviamo di fronte semplicemente una straordinaria situazione, mai accaduta nella storia del mondo – nemmeno all'epoca dell'impero romano, perlomeno su aree così gigantesche –, in cui esiste una superpotenza egemone che ha il potere di imporre il proprio modello.

Naturalmente, alla lunga, probabilmente questa superpotenza si costruirà dei nemici più seri dei rogue states, ma ci vorrà molto tempo. Nel frattempo, teniamo presente che nel corso degli ultimi quindici-venti anni, mentre in Europa si cincischiava sull'importanza del welfare, sugli orientamenti politici delle classi dirigenti o sulle alleanze fra cattolici, socialisti, comunisti, ecc. gli americani hanno ripreso l'autobus che rischiavano di perdere alla fine degli anni settanta, e cioè, hanno rilanciato l'economia e la produttività e la tecnologia, e oggi hanno un vantaggio tecnologico, sia nella ricerca di base sia nella tecnologia applicata che è di due generazioni, in alcuni settori, rispetto agli europei e ai giapponesi, per non dire degli altri. Da questo punto di vista, l'ipotesi di uno scontro di civiltà può quindi avverarsi solo se le consideriamo all'interno di scontri fra civiltà che non coinvolgano direttamente la civiltà occidentale, che non coinvolgano in prima persona gli Stati Uniti d'America; ma, come sappiamo, gli Stati Uniti d'America sono l'unica potenza mondiale e quindi, anche è anche l'unica potenza che è interessata a qualsiasi avvenimento avvenga nelle varie parti del mondo. L'unica possibilità di perturbazione di questo scenario – ed è su questo che lavorano, per esempio, i russi, in questo momento, o alcuni ambienti russi – è costituita dal modello eurasista che è, o meglio dovrebbe essere nell'ottica dei suoi sostenitori, lo strumento per la rinascita del modello continentalista che ha tentato di avere un ruolo con i tedeschi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, con i sovietici nella Seconda Guerra Mondiale e nella Guerra Fredda e che è stato sconfitto dal modello anglo-americano basato sul dominio del mare e sulla capacità di proiezione e di forze sui litorali. In termini strategici, questi tre elementi sono la chiave di volta per capire dove stanno, oltreché nell'economia e nella tecnologia, la capacità di intervento degli Stati Uniti e la capacità di controllo della gendarmeria internazionale di cui gli Stati Uniti sono i protagonisti.

In conclusione, io ritengo probabile che nel corso dei prossimi decenni – se ci vorranno venti oppure cinquant'anni, è difficile dire – nasceranno un competitore o più di un competitore regionale degli Stati Uniti d'America e del modello occidentale che esso rappresenta. Non mi pare che l'Europa in questo momento rappresenti un polo di aggregazione tale da contrastare gli Stati Uniti, perché l'Europa è completamente infiltrata dal modello americano e quindi è molto difficile che riesca in qualche modo a contrapporglisi. È più probabile che i competitori regionali possano venire da Oriente, dall'Eurasia: la Cina, per esempio, forse una Russia che fosse riuscita nel frattempo a riprendersi (ma ci metterà molto tempo), forse il subcontinente indiano (ma anche in questo caso, le incognite difficilmente decifrabili sono numerose), forse qualche paese del Sud America (probabilmente il Brasile); ma in ogni caso è molto probabile che tutto questo non avvenga prima di vent'anni. E poi bisogna considerare che questi competitori regionali potrebbero avere due chances molto diverse: farsi la guerra fra di loro (l'ipotesi di una guerra tra Cina e Russia o tra Cina e India non è assolutamente esclusa), e in quel caso il ruolo che gli americani o l'Occidente giocherebbero sarebbe, con molte probabilità, quello dell'arbitro, oppure aspettare di rinforzarsi e diventare competitore globali degli Stati Uniti, assumendo che questi ultimi, nel frattempo, non siano più in grado di mantenere i livelli di crescita raggiunti negli ultimi quindici anni.

Naturalmente, una chiave di volta per interpretare la possibilità di una riduzione del peso americano, e quindi del peso di tutte le teorie della globalizzazione, potrebbe essere il crollo dell'economia americana dopo nove anni di apparentemente perpetua espansione. Gli americani ormai si sono quasi convinti – per meglio dire, esiste una nuova generazione di economisti che lo sostengono, riscuotendo un certo credito – che non ci saranno più crisi economiche, anzi pensano che il ciclo economico sia finito, sostituito ormai da una lineare progressione verso l'alto, conseguenza della modernizzazione delle tecniche di analisi e di previsione economiche, e quindi dei modi attraverso i quali intervenire sul ciclo economico. Secondo questa ipotesi, i cicli economici e le crisi economiche erano il prodotto del primitivismo economicistico delle generazioni precedenti, ma oggi e domani eventi di questo genere non accadrà più. Forse, più gli economisti americani si convincono della bontà di questa tesi, più è possibile che i loro conseguenti comportamenti facciano invece sì che una crisi economica accada. E che, con la crisi, i giochi strategici internazionali del XXI secolo si riaprano. Staremo a vedere.





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Data pubblicazione: 3 agosto 2007

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